I racconti di Livio Romano, pubblicati da Einaudi nella collana Stile Libero (p.182 £ 15.000), descrivono una generazione, quella dei trentenni piccolo-borghesi, che si ritrova a fare i conti con l’atavica mancanza di opportunità del Meridione d’Italia. Ogni impegno, ogni iniziativa – mai però del tutto convinta – per trarsi d’impaccio da questa “palude” si risolve in uno scacco che ha, il più delle volte, il sapore della farsa. Da qui nasce un vero e proprio amore-odio per la propria terra, tanto “vagheggiata” e “mitizzata”, d’altronde, quando ci si è finalmente “realizzati” nelle nebbiose terre del Nord. Romano nelle sue storie mescola con spregiudicata irriverenza dialetto, lingua colta e slang giovanile, finendo per restituirci l’indiavolato ritmo della taranta, la musica del suo Salento.
Tante macchine linde e pinte scendono a mare, tante facce lesse più della mia officiano il lemme rito dello sfoggio domenicale di taierini gialli e giacchette blu e io già bestemmio il momento in cui mi sono infilato intra ‘stu completino della cresima di mio nipote; tanto più che certi nuvoloni neri già galleggiano nel cielo e ‘na tramontana unghiuta farà pure il mare piatto e scintillante, ma mi trase nelle ossa e mi fa volare zazzera e cravatta mentre, dopo aver sistemato l’auto davanti a un bidone di spazzatura stracolmo di frutta marcia chissaperché, mi dirigo a incontrare la congrega. Tenendo fra pollice e indice il bavero della giacca per proteggere la gola mia già tanto offesa: mi trascino piano piano fino alla piazza e trovò colà un tale scombuglio di donnini e baffini e fighini e vespetti che mi pare ‘na sera d’estate, se non fosse per questo vento freddo sulle palpebre. Poi, d’un tratto solo, a volume da giostra ballerina, come un erutto gigantesco che fa venir su tutti gli uovidipasqua e gli agnelli ingurgitati sulle tavole dei paesani: una musica di violini, una musica che conosco bene e che mi fa venire voglia di girare l’Ape e tornarmene a casa dalla mia Porfi. E poi una voce di rana, ma compunta, con l’accento fatto apposta un po’ milanese, una voce da grossista di computer che si innesta nel jingle e annuncia al popolo lo imminente arrivo del Gran Pallido, il quale saluterà questa cittadinanza a chiusura della campagna elettorale, avvicinatevi signori avvicinatevi, partecipate acclamate glorificate. Ma le ragazze in taier già partecipano, battono le mani al tempo dei violini, intonano le strofe, si salutano euforiche, si appuntano sul petto le spilline tricolori di riconoscimento, si chiedono ebbre da quale direzione spunterà la Jaguar del Gran Pallido. I nuvoloni intanto si sono appisolati precisamente sopra il palco dall’azzurro sventolamento ed è proprio mentre mi compiaccio per siffatta contingenza meteorologica, che in lontananza vedo spuntare l’amici mia in tabarri primaverili vellosi e variopinti – ah! ben confortevole apparizione in questo pomeriggio tramontano e incravattato.
Diamo fuori di veleno da subito, e sì ca non c’è cchiù religione, nemmanco la Pasca lassanu stare, però noi siamo solo cinque e loro mille, ‘cazzo intendi: gli dobbiamo lasciare la piazza? No, no agnuni: tocca ‘ndi organizzamu, che facciamo, dài che ci viene l’idea – qualcuno propone di roteare lo scarpino, qualcun altro di guardarci il trattenimento da dentro un bar con un qualche caffetto bollente da trangugiare lento, ‘mpa’ Gino non la smette di citare Ortega y Gasset e La ribellione delle masse mentre il Fino invita tutti alla quagliata finale: sennò ‘ndi li sciamu tutti a casa, dico bene?
Sotto il palco, lo vediamo e lo sentiamo, l’orgasmo delle pischerle in lamé monta energico insieme coi violoncelli degli altoparlanti, e gli sbirri già seguono con lo sguardo la nostra adunata extraparlamentare e l’evento incredibile a questo punto è che in questa stessa adunata non siamo più cinque, ma dieci, quindici, e poi venti, e gente la più inverosimile ci si accocchia infoltendo l’armata e chi mai avrebbe detto perfino il pasticciere avere un’anima sovversiva, e ora il maestro di scuola pure ci s’appressa, e la preside co’ maritusa e più ancora, e quando infine decidiamo di correre al tabaccaio a comprare pennarelli e cartelloni: siamo già ‘na bella truppa di barricaderos chiassosa e protesa alla vittoria finale: – Siempre oolé, and siempre siempre siempre, oolé oolé ooolé.
Dopo un quarto d’ora nervoso a inventare slogan e bisticciare sul contenuto degli stessi – l’ala moderata della soldataglia è per l’ironia tagliente, quella dei tosti e casti è scatenata invece nella coprolalia più lasciva che voi possiate aver mai sentito – ma scraciadiunaeva diamoci ‘na mossa ché quello sta arrivando, ma non vedi che ‘sto vento fa volare via tutto?, eddài: non colorare, basta la scritta, fallo tu allora se si lu megghiu: alla fine, sotto lo sguardo sdegnato delle pischerline elegantone e quello indagatore degli sbirri alla nostra destra e delle rane sul palcoscenico, ci dirigiamo a processione verso il podio colle facce tronfie e gli stendardi innalzati verso la folla che s’apre al nostro sfilare, e perlopiù ci guarda con disprezzo.
Ora siamo pronti. In prima fila, schierati come pattuglia antisommosa, eccitati e sorridenti che ci apprestiamo a cominciare la sceneggiata.
Il Gran Pallido arriva da destra e minchia se è alto: gli si vede la chioma fluente e le occhiaie da quassotta, e lui avanza, sciarpetta rossa di cachemire intorno al collo, mentre milioni di giacchette blu col bottone dorato lo osannano, lo fotografano, lo scortano – l’ingegnere del suono di questo pandemonio porta i suoi cursori al massimo, forse per cercare di farci volare via travolti dal vento assordante delle casse.
Ed è lì che il Gran Pallido arriva a due passi dalla masnada nostra, intorno a lui generaloni esimi ch’avanzano a passo di marcia, cariatidi canute dello scudo glorioso gerenti sol fino a ieri diecimigliaia di tessere a capoccia nel partito, e industriali da seicento carte scarce alle operaie, commercianti regimental, riparatori di lavatrici e, ovviamente, stangazze ossigenate che ci osservano con cristiana misericordia. Però è lui stesso a tranquillizzare l’entourage. Fanno o non fanno parte, questi giovanotti intraprendenti, del mio grandioso show? E allora let the show begin, ladies and gentlemen – lezio beffardo in canna, lettura veloce dei cartelli, complimenti vivissimi agli ideatori: si va in scena. La musica, lode e gloria ai santi, tace. Al suo posto risuona nella piazza uno spaventoso ritmatissimo canto tutto pieno di improperi lerci cui dieci-quindici fascistoni al nostro fianco dànno il via, e noi lì, coi nostri cartelloni da tempo pieno della scuola media – di un educatoooo! – a farci riprendere dalle telecamere compresa quella della questura, e non sappiamo se unirci ai neri ovvero continuare a tenete ‘sta smorfia da biete stufate davanti all’obbiettivo, perfetta imitazione di quella che ora sfoggia il Pallido nel lungo minuto di assorta disamina della folla, in piedi, mani giunte, sacerdote tacito dinanzi al suo gregge prima della celebrazione.
Appena poi il Pallido esce del suo raccoglimento e attacca coll’omelia in la maggiore, non si capisce niente più. Noi sandinisti sotto di lui che adesso siamo cento, forse, compresi i fascistoni – guarda te cosa deve capitarti nella vita – e comprese tre balene vestite di bianco che nessuno avrebbe detto esser dotate di parola e gestualità: che lo spernacchiamo a fuggi ch’è notte. Quello che le pernacchie sembrano fargli effetto pistolotto di coca mentre improvvisa sulla pentatonica – adesso mezzo tono più alta – contrappuntandola tutta di “Perderéte! Perderéte! Perderéte!” e a ognuno di questi futuri semplici c’è la pletora composta dell’équipe sua che all’unisono prima alza un po’ mento e sopracciglio all’insù e poi in perfetto sincronismo scaraventa veloce il capo all’ingiù (solo una fighetta con le mani inesplicabilmente incrociate sulla cozzapesca esce dal coro e scuote la capu in senso orizzontale, forse per rendersi originale davanti alle telecamere).
A ogni “Perderéte” seguono risate ossesse dei sediziosi e boato invelenito dei taierini che son comunque dieci volte più di noi e a girarsi a guardarli fanno pure un po’ paura con tutte quelle bocche rossettate con la voglia matta d’addentare le carni molli ti li amici mia come pure la nuca delle nostre damuzze, e il calcio di tutti quei telefonetti, prolungamenti fallici degli sgaglioni loro accompagnatori, pronti a esserci fracassati sulla fronte.
Dopo la sciarata inaugurale, raccolti gli applausi che l’orda gli tributa eccitata nell’udire la felice occorrenza della nostra disfatta elettorale, il Pallido sempre più agitato e gradascio passa poi a esaminare la truppa nostra che gli fa da spalla e ch’appare ora un po’ scoglionata e bisognosa di nuovo fomento. Tu senza capelli con quella faccia da frocio: tu non farai nulla nella vita, con la boccuccia da pompinaro che ti ritrovi. E tu testa di cazzo in grisaglia. Perderài! Perderài! Perderaà! (staff regimental sul palco testa su-giù, pischerlina testa des-sinis).
La solfa è rotta da un peperone che non avevo notato a mienzu a totta queddha gente in ghingheri. Cinquant’anni o su di lì, occhiali a specchio, completo bianco-ambulanza su camicia gialla aperta fino al pelo, capelli a boccoli e scarpino di vernice: s’avvicina al Pallido, gli strappa il microfono, proclama con una vocina molto rauca e molto bimba: Pallido, lassali stare, è che so’ ignoranti! Battimani scomposto dell’entourage, osannanellaltodeicieli della bella gente dietro di noi: il Pallido può riprendere ora a ‘nsurtare. Ora ce l’ha coi nostri supposti idoli politici: ci ruggisce di vergognarci, di convertirci ai lorsignori che ha dietro di sé prima che sia troppo tardi – sono loro la parte migliore del paese, non voi merdine fetenti froci calvi straccioni (dove l’hai comprata quella giacchetta color vomito, sì dico a te con quegli occhialini da intellettuale di ‘sto cazzo), sono loro il futuro del Mezzogiorno, non i vostri guru stalinisti o, mi si potesse fondere lo stereo della macchina se non dice proprio così, “democristiani”. Noi combutta tumultuante tutta ci scompisciamo subito dalle risate, perfino gli sbirri ci sogguardano divertiti, perfino i lorsignori in esposizione smettono la ginnastica facciale e si tirano un po’ indietro col volto ora ceruleo ora rossarancio come il bel tramonto che da dietro i nuvoloni adesso si prepara a entrare in scena sul mare lamiera.
Il generale ordina a un cameraman di filmarci perbenino, ché si tirano i conti dopo, non è ammissibile che quattro bastardelli brucino così milioni e milioni di cachet sborsati al Pallido per un civile comizio elettorale. Pure alla zia Poli fa un cenno di darsi da fare, e quelli starebbero pure iniziando a prendere i dati del Fino, ma non appena odono che ora il Gran Pallido dal palco ha preso di mira l’amicu mia Jimmy – cazzone con la faccia da sbirro -, allora pure loro s’incazzano da non dirvi e restituiscono il documento allo spilungone e a braccia alzate latrano verso il Pallido. – Mo’ te ne torni a casa da solo, e sempre che ti riesca -. Comprì? Niente scorta stasera, beddhu mia! Dalle parti della volante c’è pure ‘na bella rappresentanza nientemeno che del mitico Pedro di Padova, non so se mi spiego, e uno di loro da lontano mi riconosce e mi chiede cosaputtanaeva stia a fare così conciato con questa scritta appesa al collo, mi fa capire che se ne vanno, ma quando quelli del Pedro (cioè: i fighettini di quassotta che all’università fanno gli alternativi coi sòrdi della family) dicono che se ne vanno: vuol dire che c’è aria di scascìgghiu, e a me mi vengono pure un po’ il panico e i sensi di colpa ché dopotutto siamo stati noi a mettere su ‘sto gran bordello.
Frattanto il Pallido sul pulpito è scatenato sbrigliato e sembra l’amica mia ballerina quando interpreta la pizzicata cu l’amico mia pifferaio che le suona le musiche arabeggianti. Pallido insulta tutti, sparleggia, pure qualche giacchetta blu ‘ccumensa a spazientirsi e quando la comiziata è finita e quello scende tra la folla: ho l’impressione che la piazza gliel’abbiamo tolta sul serio. In quel momento, mi pare ca’ intra a ‘sto slargo marino saturo di iodio e salsedine, so’ più forti i fischi e più numerosi gli indici puntati piuttosto che la violenza della sarabanda cioccolamentosa che adesso ha ripreso a stordire li ‘recchie mentre l’amicofrizzi firma autografi sulle menne delle donnine genuflesse e sui palmi dei di loro fidanzati col car stereo sotto l’ascella. Mi sembra che quel pupodigomma in mezzo a tuttu quiddhu casinu, pur coll’immutato cerone suo sardonico, si stia un po’ cacando sotto coi centoduecento calvi froci fascistoni comunardi che ora gli tirano la giacca, lo spingono, gli menano a calci la Jaguar. Mi sembra che pure i supporter più affezionati, spettinati come noi per via del ventarone gelido, bah, è come se stiano pensando di andarsene alle case loro, di fottersene ormai del prosieguo della faccenda, di andarsi a guardare il tramonto, a bere ‘na grappa, a fumarsi poi ‘na cigara seduti sul muretto
E finalmente poi lu cielu si lassa. Goccioloni di pioggia d’aprile inzuppano a pulcino i nostri cartelli e nostri gabbani leggeri. A duecento metri da noi ‘na marea di cristiani circonda lu mmacchinariu del Pallido che a stento si schioda di qualche metro ogni tanto. Non capiamo bene se lo lisciano e strisciano oppure se stanno per rovesciargli la Jaguar intra ‘mmare. Guardiamo in piedi, in silenzio. Il Fino, Jimmy, la bionda, ‘mpa’ Gino, iò e totta la ciurma, i cartelli fradici per terra con la pioggia che li scolora e forma rivelli di inchiostro rosso sul selciato. La bionda mi offre ‘na cigara. Non riesco ad accendere per il vento. Il Fino pur altissimo si alza in punta di piedi lunga il mento per meglio osservare. Siamo poi tutti attratti dal finestrino che s’abbassa nella parte posteriore della Jaguar. Ne spunta braccio lungo e scuro da stregabacheca. Regge trionfale un dito medio puntato verso l’alto, forse verso un fulmine.
Un pescatore s’avvicina alla berlina e rivolge al Pallido il gesto di colui il quale inviti l’interlocutore ad approfittare della propria verga marmorea. Ma il mortigno, sfidato, apre lo sportello, e scende dall’auto e si mette a inseguire il marinaro facendosi largo tra la folla. Lo raggiunge sul ballatoio di una casetta verdina dove il disgraziato cerca riparo bussando a più non posso – gli aprono, per fortuna, gli aprono e gli offrono ricovero e, poiché l’usciale si richiude subito dopo aver inghiottito il pescatore, il Pallido rimasto fuori non si perde d’animo, e tira un ultimo colpo contro il portoncino e approfitta dell’altura per esporre daccapo il dito medio alla folla. Lo abbrancano due carabineros, alla fine, lo afferrano e lo fiondano intra la mmachina prima che occorra lo sconquasso, e l’autista sgomma via fulmineo con l’auto nera dei militi che a sirene sparate fa largo alla Jaguar, ora tutt’ammaccata per le pedate della turba.
È in questo preciso momento che smette di piovere.