Alex de la Iglesia e Jorge Guerricaechevarría

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È una notte chiara a Bologna e la sala della cineteca, dove si è appena conclusa la proiezione di Oxford Murders. Teorema di un delitto, è gremita.

È una notte chiara a Bologna e la sala della cineteca, dove si è appena conclusa la proiezione di Oxford Murders. Teorema di un delitto, è gremita. Occhiate curiose studiano i due uomini: uno dalla mole imponente e il fare impetuoso, completo scuro, maglietta Lacoste, l’altro magro, il sorriso e lo sguardo svagato, mentre salgono sul palco per l’incontro con il pubblico: Alex de la Iglesia regista e Jorge Guerricaechevarría cosceneggiatore. Impossibile non accorgersi subito del sodalizio di ferro che unisce due uomini così diversi. Si conoscono da quando avevano otto anni e vivevano a Bilbao, rispondono quando gli chiedono come sia scrivere sempre a quattro mani. E questo bastasse a spiegare tutto: la scrittura, l’amicizia, l’allegria, l’ironia. Parlano della tecnica collaudata da Dalì e Bunuel con El perro andaluz, uno racconta la prima cosa che gli viene in mente, per quanto assurda, e l’altro, senza pensarci su, dice se gli piace o no: per regola nella sceneggiatura finisce solo ciò che piace ad entrambi. Loro scrivono insieme ogni riga di ogni film. E di storie ne hanno scritte tante: (El dia de la Bestia, La comunidad/Intrigo all’ultimo piano, Crimen perfecto/Finché morte non li separi) grottesche, surreali, piene di humour nero. Anche se non è lo humour ad essere nero, come diceva Rafael Azcona, ma la vita: è parlando della vita che lo humour si fa nero. Le loro storie raccontano della venuta dell’Anticristo, di seduttori sedotti da donne bruttissime che squartano cadaveri, di condomini trasformati in sette assassine. E creano adepti fedeli, poco inclini ai cambiamenti, pronti a colpire se si sentono abbandonati. Così Alex de la Iglesia, che affronta ogni critica per le corna, vediamo dove si arriva afferrati alla testa del toro, lo ha detto subito stasera prima della proiezione: chiedo perdono, stasera niente horror, né humour nero, Oxford Murders è un thriller classico girato nel pieno rispetto delle regole. Lo ha detto tante volte, nei due giorni in cui lo accompagniamo tra Roma e Bologna, che questo è un thriller alla Agatha Christie in apparenza semplice, ma dove alla fine, in realtà, tutto si confonde. Niente dettagli macabri e folli in apertura ma Wittgenstein che in trincea freneticamente scrive il suo Tractatus logico philosophicus incurante delle bombe che gli piovono attorno. C’era una questione più importante per lui della prima guerra mondiale: doveva capire se la verità sia conoscibile. Ed è ciò che bisognerà capire prima di scoprire l’assassino che si aggira tra i terribili personaggi del film: donne sessualmente represse, studenti di matematica, ambiziosi e frustrati, il vecchio e cinico professore di logica e il suo amico, il professore impazzito che si lobotomizza convinto che il difetto del mondo sia nel suo cervello. Alex de la Iglesia cerca ovunque, negli incontri, un appiglio di scavo, un tocco di verità, un modo per spiegare meglio il suo lavoro e la vita e se stesso, il corpo abbondante, seduto a fatica nella sedia delle interviste, lo sguardo che a tratti si riempie di malinconia, di tenerezza, di allegria selvaggia. E più stretta della sedia per le interviste è l’immagine di regista trasgressivo e irriverente che lo accompagna ovunque. Che lo precede in ogni sede sebbene lui dica sempre di amare il cinema classico: John Ford e George Cukor e Howard Hawks e che il suo regista preferito è Sidney Lumet. E ama Billy Wilder a cui tutti chiedevano di fare commedie anche nei suoi film più neri. Perché è vero che la commedia è la cosa più seria del mondo, la commedia è il linguaggio degli dei, ma non tutte le storie sono commedie. E il romanzo La serie di Oxford (titolo originale Crimenes imperceptibles) dello scrittore e matematico argentino Guillermo Martínez da cui è tratto il film, non è una commedia. E quale stravaganza maggiore di un thriller classico, per chi dall’infanzia, come lui, è dedito all’esagerazione e alla demenza? Per chi nella trasgressione è comodamente di casa? Non è un buon segno se un autore rimane chiuso in un stile definito, meglio cercare sguardi nuovi sul mondo. Per questo quando la gente dice di capirlo, di conoscerlo, quando, come è successo stamattina, qualcuno gli dice che gli studenti all’Università scrivono tesi su di lui, un’espressione di terrore gli appare sul viso mentre mormora che in genere si studiano le cose concluse, definite, come gli insetti e le mosche e lui prima di essere studiato come una mosca vorrebbe provare altre cose. E la cosa che più gli piace è mettersi nelle situazioni scomode. E se invece non fosse il suo un sacro desiderio di sperimentare, ma piuttosto brama di denaro, desiderio di accodarsi al filone Codice da Vinci?, insinua qualcuno. E lui ride, non gli importerebbe vendere l’anima al diavolo, ma il diavolo non la vuole l’anima sua avvolta in un corpo unto, grasso e sudato. Ridono lui e Jorge. Le loro spalle sussultano, i loro occhi scintillano di allegria. Ma stasera c’è qualcosa di diverso nell’aria. Nella chiara notte bolognese con manifestazioni di destra che riempiono la piazza, con i ristoranti che offrono tortellini in brodo, bolliti e arrosti, e maîtres dalle lussureggianti cravatte gialle e fantascientifici occhiali neri, da cui Alex e Jorge non riescono a distogliere lo sguardo, che spiegano loro che l’aggettivo verace delle vongole non serve a distinguerle dalle vongole di plastica servite in altri ristoranti come credevano gli amici spagnoli ma sta indicare i grossi corni delle vongole che lumeggiano tra gli spaghetti e ne attestano le origini nella zona di Comacchio. Alex e Jorge sospirano sollevati e ascoltano estasiati la descrizione minuziosa di ogni piatto, è tutta una gran festa, gli occhi incollati alla cravatta gialla “ci ha convinto” esclamano alla menzione di ogni prelibatezza, e quindi i signori prenderebbero? “ci ha convinto” prendono tutto con un gesto della mano che abbraccia il locale, la clientela, i camerieri stanchi, a fine turno, terrorizzati, talvolta seccati, dal loro evidente appetito, dalla loro discreta insaziabile curiosità, e le graziose piante sulle mensole che nel film immaginario di Alex e Jorge faranno la loro comparsa a tavola con le foglie gratinate. Mentre sui commensali in trionfo si leva, sovrana, la meravigliosa ipnotica cravatta gialla. Alex studia il piatto che gli è stato servito, gioca con la forchetta e distoglie lo sguardo. Fa parte del suo tirocinio, della sua rieducazione, spiega. Si impone di iniziare per ultimo, di procrastinare il primo boccone, altrimenti, prima che servano gli altri, lui in genere ha già finito di mangiare. Nel ristorante Alex e Jorge parlano e raccontano, schiudendo mondi, un’ironia che fa il cuore leggero e riempie la testa di storie, di cinema, di Spagna, raccontano con stupore di Cinecittà che hanno visitato ieri felici come bambini che al cinema non siano mai stati. E parlano di un luogo sperduto, dove è ambientato 800 balas, un western che in Italia non è arrivato, vicino ad Almerìa, dove un tempo venivano girati gli spaghetti western, dove Clint Eastwood era di casa. Poi hanno smesso di farli, dall’oggi al domani il posto è stato abbandonato, un deserto, la gente è rimasta senza lavoro. Ora si girano videoclips e spot pubblicitari, con le comparse dei tempi andati. E raccontano di un cowboy che non se la sente di viaggiare ogni giorno, avanti e indietro, fino al centro abitato, si tratta pur sempre di molti chilometri e ha deciso di vivere lì, dorme nella prigione ed abita a casa dello sceriffo. Alex ama il western, come il thriller, perché è un riflesso del mondo, un concetto, un’idea, lo sceriffo, il saloon, il cattivo. Sono mondi chiusi, come la Caverna del mito, che permettono di lavorare con le idee, in un mondo immaginario le idee sono più brillanti, non ci siamo noi a sporcarle. I western assomigliano alle opere di Shakespeare. Dice Alex ridendo. Toccano le profondità dell’essere. Non si prende mai sul serio Alex de la Iglesia, ma le cose che dice fanno pensare, quando, soffrendo di horror vacui, sferza il silenzio delle aule. (A Belgrado alla scuola di cinema ha arringato gli studenti inerti “nessuno di voi arriverà dietro la macchina da presa, scordatevi di fare cinema” e allora sì il pubblico si è scosso.) E così non aspetta mai le domande per spiegare che del romanzo argentino lo affascinava l’elemento del gioco, dell’enigma, che è una delle sue passioni. Perché uno le proprie ossessioni, i propri personaggi se li porta sempre dietro. E, a scomporre Oxford murders, si ritrovano i temi di sempre: il personaggio che intraprende un viaggio e arriva in un ambiente chiuso che lo respinge, come Martin lo studente di matematica che arriva ad Oxford per il suo dottorato. Il sommo esperto di una frazione di mondo che non sa nulla della realtà. Il tradimento, l’inganno, la menzogna. E soprattutto il gioco: boardgames, giochi di simulazione, giochi da tavolo. A cui lo spettatore deve prendere parte attiva. Per questo lui ci teneva tanto a quello che il pubblico ha scambiato per un lungo piano sequenza dove la macchina da presa segue le mosse di ogni personaggio negli istanti in cui viene assassinata la prima vittima. Era la sua ossessione quel piano sequenza, confessa, ma poi le cose non sono andate come lui le aveva sognate. Succede sempre così con i produttori: mai che ti lascino sognare davvero. Aveva immaginato la sequenza dall’alto, dall’elicottero, in modo che Oxford apparisse come una scacchiera e i personaggi come pedine, ma non è stato possibile, le condizioni metereologiche non lo hanno permesso e i produttori non volevano aspettare. In realtà sono otto scene, alcune girate di notte, altre con la pioggia. Sono stati quelli degli effetti speciali a fare il miracolo. Sospira al pensiero dell’occasione mancata, della scacchiera sfumata. Lo rassicura il mondo chiuso nella scacchiera con dentro la strada, la biblioteca, l’assassino, è bello e semplice, e sotto controllo. L’universo racchiuso ha una dimensione definita, senza trucchi né inganni. “Dà serenità” sospira Alex, “una volta tanto, nella vita, sapere a che gioco si gioca”. E quando tutti si stupiscono delle loro competenze di filosofia e matematica, Alex e Jorge si scherniscono seri, seri e dicono che Wittgenstein è sì la loro passione, il Tractatus logico philosophicus li ha sempre attratti, ma a leggerlo tutto non ci sono mai riusciti. Tra loro, di Wittgenstein, però ne parlano sempre. Li ossessiona il fatto che abbia scritto in trincea sotto le bombe una delle opere somme del ventesimo secolo, “mentre noi ci lamentiamo sempre delle difficoltà che abbiamo a fare le cose”, dice Jorge con il suo sguardo sognante. E li affascina che Witt e Hitler per un anno abbiano frequentato la stessa scuola. Sono cose su cui non smettono di rimuginare, sempre alla ricerca di brava gente disposta ad investire sulla storia di due ragazzini assai diversi che frequentavano la stessa scuola. Ma se il Tractatus non lo hanno letto, incalza qualcuno, senz’altro conoscono Gödel, Escher, Bach. Un’eterna ghirlanda brillante (dove si raffrontano tra le altre cose la musica di Bach, il teorema di Gödel, e i quadri di Escher) perché il film ne è pieno di echi. E loro sornioni, umili, ammettono di averlo letto. E sono grati e commossi che qualcuno se ne sia accorto. Perché in Spagna, dove il film ha avuto grande successo, delle influenze del ponderoso, bellissimo, faticoso testo di Hofstadter non se ne era accorto nessuno. Ma alla fine la realtà è conoscibile, è possibile arrivare alla verità? Chi vince tra il vecchio professore cinico e disilluso, per cui la vita è assurda e il giovane Martin che ritiene che dietro gli oggetti e le persone ci siano numeri e basta conoscerli per decifrare la realtà? Ogni volta Alex scuote la testa e dice di non aver ancora risolto la questione. Per questo il film non finisce bene, per questo, e fa una smorfia amara, ha sempre problemi con la chiusa, lui ha bisogno di gente come Martin, ha bisogno di essere circondato da ottimisti. Forse la verità esiste, e siamo noi ad averla sporcata, ad averla resa irriconoscibile, rovinata per sempre con le nostre mani sporche degli intingoli grassi con cui soddisfiamo i nostri appetiti. E il suo sguardo è cupo e nero E visto che la verità ci è preclusa tanto vale tapparci in casa a guardare Star Trek fino alla morte. Ma dopo un istante salta sulla sedia e batte il pugno sul tavolo perché lui, a pensarci bene, la bottiglia invece la vede mezza piena, anzi per principio la vede quasi colma. Alla fine arriverà il Settimo Cavalleggeri e ci salverà tutti. Lui la verità è sempre in procinto di coglierla, se non arrivasse ad ogni istante qualcuno a distrarlo, sua moglie e le figlie, e pure Jorge che prende il telefono e lo chiama, se non ci si mettessero tutti a strapazzarlo lui la verità l’avrebbe trovata da un pezzo. E poi il cinema una volta ci è riuscito. Orson Welles ci è arrivato con Quarto Potere, ha toccato la vetta, il miglior regista del momento, con il meglio che allora potesse offrire Hollywood ci è riuscito: ha fatto il film perfetto. La Repubblica di Platone. Il cinema ha toccato il cielo e poi ha preso a scendere. “Perché, non so quanti se ne rendano conto, ma oggi il cinema è ricordo, ed il nostro talento sta nel ricordare bene. Noi siamo l’equivalente di Plotino e tutta la masnada di filosofi che è seguita all’epoca d’oro. Officianti pieni di angoscia che ripetono cose già dette. La lingua del cinema l’hanno creata quattro tizi un secolo e mezzo fa, noi siamo la risacca, il riflusso.” “Ecco la bottiglia piena di Alex”. Ride Jorge. E poi c’è quel battito d’ali della farfalla che muove l’oceano dall’altra parte del mondo, come il colpevole del film, siamo tutti colpevoli con i nostri atti dalle conseguenze inimmaginabili. Siamo tutti colpevoli dell’immenso errore di vivere. E neanche l’amore sembra possa aiutare. Il professore e lo studente devono scegliere tra la dedizione al pensiero e la dedizione all’amore, ed entrambi sacrificano l’amore, i numeri, la logica sono un’ossessione e come tutte le ossessioni non lasciano tempo per la vita. Le persone intelligenti non possono non porsi il problema: se sia meglio pensare o vivere. Certo sarebbe bello vivere pensando, ma a quanti succede? Eppure se trovi l’amore e ti senti bene, a tuo agio, a quel punto cosa ti dovrebbe importare del teorema di Gödel?” Alex de la Iglesia per amore si è sposato a Las Vegas vestito da Elvis Presley. Di questo si è parlato negli ultimi giorni. E ora è notte e Alex de la Iglesia e Jorge (dal cognome impossibile, che tutti cercano di non pronunciare) sono seduti sul podio della cineteca davanti alla platea silente. Alex lo ha detto che per la prima proiezione per il pubblico in Italia, si è esercitato due ore da solo nudo e cosparso di miele davanti allo specchio e Jorge, svagato e sognante, cita un film di Sidney Lumet dove Michael Cain, un regista teatrale legge le recensioni dopo la prima della sua opera. I giornali scrivono: “ora finalmente sappiamo chi è l’assassino, l’assassino è il regista che ci ha massacrato”. E spera tanto che stasera le cose non vadano così. E allora poiché la platea tace e la notte è ancora lunga Alex decide di riempirla tutta, la notte più grande del suo grande corpo, di occuparla tutta con le sue parole e, all’inizio, in sordina racconta dei produttori alle cui porte hanno bussato, “idea formidabile, lo produciamo noi” dicevano “ma levate la matematica, troppo complicata la matematica” e quei personaggi sempre a chiedersi se sia possibile conoscere la verità, e quel Wittgenstein con le sue cartoline di guerra per dire fino a dove si può pensare e su cosa invece bisogna tacere. Via, via. Il grande Jacques Warner, in persona, glielo aveva detto togliete la matematica ed il film lo produciamo noi, lo lanciamo alla grande sul mercato internazionale, lo sapete come le facciamo noi le cose. “Jacques Warner ha detto: Alex, ti do dieci volte più soldi di quanti te ne servono, ma lascia stare la matematica, lo sappiamo tutti che hai problemi, che ti senti frustrato, grasso e ignorante, ma non è con un film così che ti riscatti, ed io che non possiedo neanche una cellula di persona ribelle, avrei tanto desiderato dire di sì, avrei desiderato essere sodomizzato violentemente da Jacques Warner, senza che lui si sentisse costretto a sussurrarmi paroline dolci all’orecchio, no, niente, pura sodomia brutale e mi sarebbe piaciuto, ma poi di cosa avrebbero parlato il professore e lo studente, Seldom e Martin?” Un torrente, Alex de la Iglesia, parola che nella penombra sconquassa la platea silente. E una signora timidamente dice che Oxford Murders è un bel film e a lei, se è per questo, è piaciuto anche Perdita Durango, proiettato nel pomeriggio e che commedia non è. Peccato che in Italia si sia visto così poco. Continui a fare film conclude. “Certo ma non sarò la caricatura di me stesso, il pubblico è come una grande madre che vuole che suo figlio se ne stia nella sua cameretta a giocare sempre agli stessi giochi e una volta finito pulisca la stanza e metta in ordine. Volete sempre il ragazzino della commedia nera. Da Billy Wilder la mamma voleva solo commedie. Perché Billy caro non ce le hai messe le tue battute in Giorni perduti? Io e Jorge non vogliamo finire come i due comici di Muertos de risa che si davano gli schiaffi e la gente rideva, rideva e non potevano cambiare nulla del loro numero, la gente voleva sempre e solo gli schiaffi. Tutta la vita a darsi schiaffi.” Con vigore riempie ogni istante di silenzio, l’odiato silenzio delle presentazioni, delle interviste, il viso sempre più ironico, più spietato, più malinconico. “Dopo El Dia de la Bestia per cinque anni io e Jorge abbiamo ricevuto proposte per progetti satanici, ci dicevano voi che fate le messe nere guardate qui se vi interessa. La gente vuole che io li sorprenda sempre con le stesse cose. Ma per sorprendere bisogna illudersi di raccontare qualcosa di diverso… Un giorno davanti casa mia si sono fermate due macchine della polizia. Scende l’agente e consegna a mia moglie un foglietto, una citazione a giudizio, dovevo presentarmi davanti ad un giudice di Aranjuez. Qualcuno ad Aranjuez aveva sporto denuncia contro di me, mia moglie a chiedermi: ma che hai fatto ad Aranjuez? Ed io a giurarle che non avevo fatto niente, che non c’ero mai stato ad Aranjuez. E intanto mi sforzavo di ricordare, perché il dubbio ti viene. Ho chiamato l’avvocato e la notte prima mia moglie mi dice: lo so cosa hai fatto, sei andato a presentare un film, ti sei drogato e hai infastidito qualche ragazza, ed io a giurare di no, che no, che ad Aranjuez, proprio no, ma poi ho cominciato a dubitare di me stesso, sempre colpevole di tutto, di aver fatto davvero qualcosa di tremendo e di bestiale: magari una fanciulla era venuta a congratularsi con me dopo la proiezione ed io l’avevo posseduta lì sul posto e la poveretta aveva fatto denuncia. Giustamente. Il giorno convenuto vado e il giudice mi dice: l’abbiamo chiamata perché una donna sostiene che lei tutti i venerdì viene ad Aranjuez a picchiare il fratello della signora. E intanto ne approfitta per fare le orge con Aitana Sánchez-Gijón, (un’attrice spagnola) e chiama la signora al telefono per convincerla ad unirsi alle loro messe nere. E spesso ha cercato di violentarla. Cosa ha da rispondere? Ed io gli ho chiesto: signor giudice ma queste accuse le appaiono verosimili? E il giudice ha detto, no ci mancherebbe, ma io l’ho chiamata perchè volevo conoscerla, per vedere come era fatto uno come lei. E oltre alle denunce mi mandano cortometraggi. Non so perché, mi chiedo come posso aiutare io un uomo che ha fatto un cortometraggio? E un giorno dopo El dia de la Bestia (dove un prete devoto convinto che stia per nascere l’Anticristo decide di commettere tutto il male del mondo per entrare in contatto con Satana e scongiurarne la venuta) apro una delle cassette e dentro c’era una pantegana morta, putrefatta con i vermi che impazzavano. La pelle della pantegana era stata fissata con le grappette all’interno della custodia così all’aprirla la pantegana si è squarciata e c’era un biglietto di accompagnamento di un mio fan che trasudava orgoglio, non lo sfiorava neanche l’idea che potesse disgustarmi, era convinto di avermi fatto un regalo che avrei molto apprezzato, ma guarda che pensiero gentile, guarda come si è andato a disturbare. Io e Jorge abbiamo tanti progetti, torneremo anche a fare ripugnanti film commerciali per un pubblico meno esigente. Ma ora si è fatto tardi” dice puntando lo sguardo ironico furioso sulla platea silente, sbigottita “ci rimangono due alternative: andarcene tutti a casa, ottima possibilità, oppure tirar fuori un tema scottante che risvegli le menti tumefatte, ad esempio il rapporto tra commercio e creatività, potremmo chiederci se il caviale è davvero sempre meglio di due belle uova fritte, e parlare della voglia di essere esclusivi, geniali e non degli idioti a cui piacciono le uova fritte, ci piacciono i registi iracheni, cinesi e anche qualche coreano, ci piace la faccia che fanno i nostri amici quando lo diciamo, vogliamo tutti credere che l’artista non si perde dietro due uova, no l’artista non è fatto per questo, l’artista è rarefatto, dietro la Cappella Sistina, dietro Michelangelo non c’era il papa con i suoi soldi, l’artista solo dedito alla sua arte, che non lavora, anche lui, per pagare la scuola dei figli. E questo è importante perché produce un modo di vedere il mondo, produce una malattia e poi si creano ospedali per curarla e questi ospedali si chiamano festival. I festival del cinema dove va la gente malata a farsi curare, i malati che si riuniscono per vedere tutti insieme i film iraniani, il prodotto triste di una società borghese e corrotta, che si copre le spalle nel candido mantello della decadenza. Qualcuno sorride, ma Alex non vi bada. Il regista è un uomo nudo davanti al pubblico. “Quando vedi un film sai tutto del regista, da dove viene, che cosa conosce e cosa ignora. Facciamo film per essere amati e, per quanto possa sembrare strano, per amare. Che importa, ormai potrei parlarvi di tutto: del sudore delle mie ascelle, del grasso delle mie natiche. Ma ora andiamocene a casa” E la gente rimane seduta e gli sorride. Forse a Bologna qualcuno dei suoi fan non ha trovato il film di suo gusto, ma alla fine, strapazzati, strattonati, sembrano tutti conquistati da questo buffone malinconico e veemente. E soprattutto appassionato e sincero, per cui fare film è la cosa più bella del mondo. “Se il cinema c’è, tutto il resto cosa conta?” E ora che il suo fiume di parole è corso via, resta vivida un’immagine di silenzio. Un mattino presto, la macchina ferma all’autogrill. Jorge, svagato, mezzo assonnato, scende a fare incetta di caffé. Alex, il viso addossato al sedile, cattura l’aria nel finestrino aperto. Sul viso la fatica per la notte appena trascorsa, l’alcol, e le battaglie della sua natura impetuosa. Negli occhi di entrambi d’un tratto uno stupore, un’allegria per la luce azzurra che si è accesa, all’improvviso, nel cielo di pioggia.

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