Il tappo della passata di pomodoro non si voleva muovere. – Amore, lascia fare a me -, azzardò Margherita con un filo di voce; con una stretta al cuore lo vedeva lottare, lo vedeva misurarsi con quell’insulso barattolo, e si maledì per aver scelto di cucinare con il sugo. – No, faccio io -, rispose in modo brusco , senza neanche guardarla; era fisso su quella trama di rombi rossi sopra il tappo attento ad una loro minima rotazione. Le dita diventarono bianche per la pressione, e il sangue cominciò ad affluire lungo il suo volto contratto; – Ti prego smettila… – lo implorò Margherita, sapendo che non si sarebbe fatto altro che del male se avesse perpetuato in questa sua futile sfida. All’inizio sembrò non averla nemmeno udita, poi però con una smorfia mollò la presa, sbuffò ed alzando gli occhi, incrociò quelli di sua moglie; – Scusami, è che ho le mani scivolose, ora lo apro -. Abbozzò un sorriso, e mentre si strofinava la mano sul bordo della maglia, Margherita rassegnata rispose: -Va bene, con calma. L’acqua deve ancora bollire- e andò ad armeggiare con le stoviglie nel lavandino, per non mostrare a suo marito l’ombra di rammarico che la pervase. Orlando continuò ad asciugarsi e fissare il barattolo, sperando quasi di convincerlo a mollare la presa. “Per favore” lo si sentiva implorare a bocca chiusa. Si passò entrambe le mani nei capelli lunghi bruni e li strinse dietro in un elastico immaginario. La mano destra veloce passò sopra il suo volto, come a calare la visiera di un elmo invisibile ed indugiò per un attimo sulla folta barba. Una campana lontana nella sua testa rintoccò la ripresa di questo mortale scontro. Prese il barattolo e si girò per dare la schiena a sua moglie, dalla quale percepiva un inesorabile sguardo inquisitore, e posò la mano con cautela sul tappo. Margherita che attenta seguiva i movimenti del marito, ancora rivolta al lavello si morse il labbro inferiore e si volse. Socchiuse le palpebre, e mentre osservava il suo uomo si portò il pugno chiuso alla bocca; rivisse quell’intervallo infinito di tempo che impiegò il chirurgo a percorrere lo spazio dalla porta socchiusa della sala operatoria in cui giaceva suo marito a lei. Come allora pregò, e questa volta pregò con tutto il cuore che quella passata di pomodoro si aprisse; il silenzio si diffuse irrequieto nella stanza sovrastando anche quell’acqua infelice che continuava a bollire ignara della situazione. Un velo di inquietudine ammantava quei due esseri umani a cui se ne aggiunse un terzo perché da poco, richiamato da un odore denso di tensione, loro figlio Micky fece capolino e taciturno attese lo sviluppo della scena. Orlando cominciò a provare a ruotare il polso. -Deve essere rotto, prendiamone un altro- -no lo sento muoversi- -Potrebbe essersi creato il vuoto, dallo a me che con il coltello…- -Basta! Ce la faccio da solo, e che cazzo! – Alzò la voce Orlando. Si poggiò con la schiena al davanzale e si piegò in avanti. Ritrasse le labbra dallo sforzo mostrando i denti e con gli occhi strizzati cominciò ad emettere un suono cavernoso. Micky impaurito si ritirò nella sala, sporgendo in avanti dentro la cucina, solo la testolina quel tanto che bastava per non perdersi la scena. Margherita trattenne il respiro. Il suono diventò un grido di guerra prolungato, si incurvò sempre di più, tutti i capelli adesso gli caddero in avanti facendolo assomigliare, con la sua cespugliosa barba, ad un folle selvaggio. Il suo figlioletto lo guardò affascinato. In quel frammento, il piccolo bambino rivedeva i numerosissimi filmati che non si stancava mai di guardare e riguardare, di suo padre, muscoloso, possente, urlare contro la formazione nemica, mentre nel campo da gioco correva, pronto ad incornare avversari con la palla da rugby in mano. Rimase stupito di quel insinuarsi e mescolarsi di una realtà a lui lontana, che poteva solo immaginare visto che non gli era ancora permesso di andare a vedere il padre allo stadio, con la tranquilla vita domestica. La visione ad un certo punto però, da così vivida e forte che era, si incrinò e un attimo dopo andò in frantumi lasciando Micky turbato. Successe quando il padre alzò la testa e mostrò un collo tirato oltre ogni sforzo, quando quell’urlo assordante scemò in un lamento, in un pigolio, quando notò quelle inopportune ed inesorabili lacrime scendere e sconfiggere il ricordo di un uomo granitico ed eterno.
Margherita fece per avvicinarsi, si sforzò di entrare nella bolla di sapone che si era creata intorno al marito, non resisteva, sentiva il bisogno di proteggerlo; la bolla scoppiò. Orlando, come in un canto del cigno distorto, si riprese e con furia scagliò la passata di pomodoro per terra, mandandola in frantumi.
– Orlando…- , colta di sorpresa Margherita si ritrasse, impaurita. Gli occhi errarono lungo i contorni di una cucina violata. Si mise a osservare quelle gocce di sangue di pomodoro attaccate agli sportelli, ai vetri della credenza, ai cassetti al muro; – Michele! Amore -, sobbalzò. Accorse dal figlio pietrificato, si prese un lembo della manica della felpa e lo tirò per poter pulire bene il visetto di Michele, per potergli levare quei grumi rossi che addirittura erano giunti al limitare dell’occhio sinistro, ma il figlio non se ne sembrò curare. Margherita con l’altra mano libera, gli strinse forte il braccino, in un tentativo vano di distoglierlo da quella brutale scena, di catturare la sua attenzione e sperare che gli ultimi minuti scivolassero via insieme alla polpa di pomodoro. Ma Michele ancora non si mosse.
Orlando nell’udire il nome Michele, alzò il capo e d’un tratto si sentì affogare nella vergogna. – Micky… – esitò; la parola uscì fuori come un soffio, e come un soffio si perse. Guardò il volto innocente del figlio macchiato, vide i movimenti convulsi della moglie accovacciata sopra una chiazza rossa, accanto al bambino, che piagnucolava scuse come se fosse stata complice. Abbassò lo sguardo e fissò le sue mani, pulite, estranee. – Micky… – riprovò. – Tranquillo – si riprese Margherita, ed alzandosi in piedi continuando a rivolgersi al figlio disse: – non è successo niente, stavamo giocando al gioco dei mimi con papà e si è fatto prendere la mano… Vero Orlando? Di un po’, che film stavi facendo? -. Si volse verso il marito. Per la prima volta dall’inizio della vicenda, si fissarono negli occhi, e Margherita venne percorsa da un brivido quando vide quello che specchiavano. – Eh? Io… cosa? – -I mimi dicevo, quale film stavi facendo? – Il marito con occhi sgranati muoveva in modo ossessivo le pupille prima verso la moglie e poi verso il figlio. – Io…- – King Kong? – – Ma certo Micky, King Kong! Bravissimo! Come ho fatto a non pensarci. Dai adesso vai in bagno a sciacquarti il viso, io intanto metto a posto qua, poi giochiamo tutti insieme – Non troppo convinto, Michele se ne andò, continuando a voltarsi per riuscire ad afferrare magari qualche impressione volante che lo aiutasse a comprendere queste indecifrabili dinamiche da adulti.
– Tieni, guarda che hai fatto – Margherita rimproverò Orlando porgendogli un canovaccio per pulirsi i pantaloni; aveva riacquistato sicurezza, la tempesta era passata ed aveva lasciato qui solo la conchiglia dell’uomo che aveva sposato. – Scusami è che – la voce di Orlando si spense, lasciò cadere le braccia e non accordandosi del braccio teso di sua moglie che gli passava il panno, guardò lo scempio. Margherita passò dall’osservare Orlando all’osservare l’alone rosso intorno al bordo della sua felpa, che le sembrava prendersi gioco di lei. Non potendo sopportare quella sensazione se la sfilò e la mise subito nella lavatrice.
– Almeno adesso si è aperto no? – si sorprese a dire Margherita, un – Già – uscì fuori da un Orlando ancora immobile. Margherita prese da sotto il lavandino gli stracci del pavimento e si avvicinò alla macchia. – Fai pulire me – la implorò Orlando. – No non fa niente, vai a sederti di là che sei stato troppo in piedi – Orlando che cominciava ad accusare fastidi al fianco continuò – Lo… lo devo fare io -; poggiò il braccio sulla spalla della moglie e con uno sguardo eloquente, si fece porgere lo straccio. Lo strinse stretto nella sua mano, come a volerlo spezzare. Trasse un profondo respiro e contemplò la grande macchia di sangue fuoriuscita non solo dal barattolo ma anche da una profonda parte del suo corpo. Poggiandosi su un ginocchio, fece per abbassare l’altro ma una fitta lungo l’inguine lo bloccò e con respiro trattenuto, piano piano si rimise dritto. Allora provò, sostenendosi con il davanzale, a flettere entrambe le ginocchia, ma incurvandosi in avanti, la pelle vicino la cicatrice da dove venne asportato il tumore si ripiegò e gli procurò sofferenza; con un sibilo si tirò su. Stava pensando a come poter portare a termine quell’impresa erculea quando sentì lo straccio tirare indietro. Margherita voleva risparmiagli anche quella umiliazione. Lui strinse più forte, si oppose; Margherita tirò ancora; lui attaccò il braccio al fianco e si impegnò per non cederle neanche un centimetro; Margherita allora, che teneva ben saldo lo straccio, con estrema delicatezza, allungò le dita dell’altra mano su per la schiena di Orlando; la percorse con lentissima quiete, ricordando i lombari ed i dorsali, che quindici anni fa la fecero rimanere a bocca aperta la prima volta che gli tolse la maglietta. Orlando trattenne il respiro. Raggiunse poi, sempre con una soffice carezza, la spalla, impalcatura della possente spalla di un tempo, sopra cui si soleva sedere quando suo marito la portava in trionfo. Sentì Orlando pian piano abituarsi e riprendere un respiro normale. La scalò e passò a blandire morbidamente un bicipite ritirato, una pelle ne più tesa, ne più incurvata, sopra cui, in future giornate di pioggia, non potranno più divertirsi a disegnare faccine. Il respiro del suo amore si fece impercettibilmente più veloce mentre faceva un giro con le dita nella vana ricerca di quel tricipite che guizzava puntualmente, tradendo suo marito, quando fingeva di dormire prima di fare l’amore. Adesso sentiva lontano lontano un calore tornare ad abitare quel corpo. Le dita di Margherita percorsero silenziosamente l’avambraccio e quei tendini che in passato, troppo tirati, si infiammavano, interrompendo le tenere lezioni di pianoforte che gli impartiva. Sfiorò il polso, ed entrò nel palmo ora soffice, e cercò di ricordarsi i numerosi calli che rendevano unica la sua carezza. Si ricongiunse poi con le dita, le strinse forte, sentì affondare le unghie lunghe del marito nella sua carne e le venne in mente quando nei primi anni si ostinava per interi pomeriggi a volerle combattere in tutti i modi perché erano sempre spezzate. Lo trasse a se e chiuse entrambi in un abbraccio a metà.
Poggiò la testa sulla sua scapola, e chiuse gli occhi, abbandonata alla risacca dei respiri. Percepiva la sua rigidità, il suo imbarazzo, rivisse il loro primo bacio, quando, dopo un’intera serata passata a giocherellare con le mani, lei dovette prendere l’iniziativa e scansare il gelato dietro cui si cercava di proteggere il suo uomo e baciarlo; Un flusso di vita si sprigionò tra le loro labbra e li avvolse allora, come in tutti i baci successivi, anche i più sfuggevoli, i più veloci, i più leggeri che però si interruppero il giorno in cui dovette abbandonare il campo da gioco, e si chiese se sarebbero più stati in grado di provare anche solo un piccolo granello di quella tenerezza.
Nessuno dei due più reclamava lo straccio. Margherita lasciò la presa. Un desiderio recondito le era emerso, voleva toccare i capelli del suo amore, voleva risentire il loro odore. Vi ci immerse i polpastrelli, con pacatezza li tirò un pò, li rigirò nell’indice, li allungò, e riconobbe al tatto la consistenza leggera; si rammentò di quando suo marito per un lungo periodo, temeva di diventar calvo, e la costrinse in lunghi giri a comprare shampoo differenti. A sottolineare quanto si sbagliavano, con un senso di benessere immerse la mano in quella ancora folta chioma. Arrivò infine al collo. Lo sentì contratto, fibroso. Cominciò a massaggiare, a muoversi un poco con piccoli movimenti circolari. Passò sopra i suoi quattro nei che “ricordano la Divina Commedia”, così disse l’uomo che le dava le spalle, anni fa al loro primo appuntamento per far colpo; “Non è possibile” replicò lei scettica, e quando poi nella stessa serata in camera sua seduti sul letto, andò ingenuamente a controllare, si ricordò di come entrambi scoppiarono in una sonora risata. Ora che ci ripassava sopra dopo tanto, quasi le parve di riconoscere l’opera dantesca. Continuò a massaggiare i muscoli ancora tesi; si mise in punta dei piedi e posò le sue fredde labbra dietro, alla base del collo; percepì una leggera pelle d’oca sotto la sua bocca, ma ancora suo marito rimaneva sul posto, fermo. Con pazienza lavorò quei tendini tirati, lo grattò un poco sotto la nuca, nel suo posto preferito, che si ricordò aver scoperto per caso una mattina di tanto tempo fa, quando, seduti a far colazione, lei calmò il particolare malumore mattutino del suo allora fidanzato al semplice tocco e si prepararono sorridenti al pranzo con i parenti. Sentì la tensione scemare, progressivamente e abbandonare quel collo non più ampio, che affascinata ogni tanto in passato, la notte, spenta la luce, lei circondava con le due sottili mani e divertita gli faceva notare che non sarebbe mai riuscita a ucciderlo in quel modo, in un attimo di follia.
La mano navigò intorno al collo, lo risalì, e si fermò solo quando incontrò la maestosa barba. Ispida e disordinata come sempre. Passò rasente alla sua superficie pungendosi il palmo con gli irti peli. Sorrise al pensare di come nacque, da uno stupido gioco, quando lei si lasciò sfuggire che trovava interessanti i boscaioli norvegesi, e lui colto nell’orgoglio non se la tagliò per settimane. Piacque ad entrambi ed erano ormai passati anni che era lì, imperterrita e rispettabile nella sua posizione. Ne colse dei ciuffi, allungò la sua fronte oltre la spalla per guardarli e compiacersi nel notare che erano rimasti ancora inusualmente rossi, come la sua prima peluria. Attraversò quel fitto campo rossiccio, e si soffermò un attimo sulle labbra screpolate, le immaginò come se l’era sempre immaginate ogni momento che si separavano durante la giornata, ne sentì il sapore sulle sue, che ancora poggiate sulla spalla, attente percepivano i cambiamenti nel suo uomo. Aveva sentito ormai che la rigidità era spezzata, che il sangue defluiva ritmicamente, il petto seguiva dei respiri regolari e che ormai, tutte le cellule del corpo del marito erano attente a seguire i movimenti della sua mano, le sentiva in bilico, apprensive, quando le dita di lei abbandonavano una parte del corpo, e poi abbandonarsi all’amabile piacere quando le falangi giungevano a cullarsi in un nuovo punto.
Erano ancora stretti l’uno nell’altra, senza emettere suono, eppure i loro corpi si esprimevano, dialogavano per vie traverse, si rimembravano e riscoprivano, raccontavano e chiedevano; avevano un gran da fare, per recuperare tutto il tempo perduto in cui erano rimasti divisi da quei due fragili amanti che si erano scioccamente allontanati, quasi dimenticati. Orlando, immoto, ascoltava quella ricongiunzione e si rese conto di quanto avesse sofferto la mancanza di quella creatura bella come un fiore di ciliegio, e di quanto l’avesse fatta soffrire. Poco a poco che il leggero petalo di sua moglie si muoveva lungo il suo corpo, si accorgeva di come fosse rimasto immutato quello che lei provava per lui, e la ringraziò sommessamente per avergli concesso una nuova possibilità. Si sentì ridipingere di nuovi colori, accolse con un dimenticato piacere il calore fluire nelle sue profondità, si riempì di quell’attimo. Le sue membra probabilmente non riuscirono a contenere quella nuova ondata di lucente passione, perché sgorgò discreta sotto forma di piccole gocce di lacrima; lui le sentì e le salutò come amiche d’infanzia, e lasciò che calassero a ripulire quello che le brucianti lacrime di insoddisfazione e sprezzo avevano lasciato in questo suo lungo periodo di letargo. Si era risvegliato e si era di nuovo innamorato.
Margherita si concesse ancora di scalare quel viso un po’ spigoloso che aveva visto illuminare la prima volta in cui gli rivelò di non avere un ragazzo, durante il loro primo incontro casuale, di rientro a casa dopo la scuola. Entrò nel tenue avvallamento della guancia, e il suo medio, un po’ più avanti delle altre dita, incontrò una lacrima.
“Amore”, “Margherita io..”, le parole non erano abbastanza. Orlando si girò e l’afferrò per il fianco. Sentì il busto di Margherita premere sulla cicatrice ma gli procurò solo un leggero formicolio che lo svegliò ancora di più. Il braccio la teneva stretta, mentre con l’altra mano le prese con ferma delicatezza il capo. La guardò, naufragarono entrambi negli occhi dell’altro e si lasciarono trasportare dalla corrente, ma anche lo sguardo non era abbastanza, e chiusero quel intenso, gradevole, innocente racconto con un bacio; un flusso di vita si sprigionò nuovamente tra le loro labbra e li avvolse come allora.
Così nella cucina ritornò la pace tra quei due esseri umani, anzi tre, perché Michele, era sempre stato li, nascosto, a sbirciare da dietro il muro. Quando capì dentro di sé che il problema era stato superato, accorse ad afferrare una gamba di Margherita, e una di Orlando e le cinse forte. Orlando, riuscì a chinarsi, lo prese da sotto le ascelle e lo mise in mezzo a loro, tra i loro petti, tra le loro teste, tra il loro amore e ripresero quell’eterno abbraccio. Orlando alzò gli occhi e vide lì a lato della credenza, una sagoma curva che si allontanava. Era l’ombra che aveva vissuto dentro di lui; riconobbe legato intorno al suo collo scheletrico il mantello di inquietudine che aveva ammantato la casa per tutto questo tempo e arrotolati sotto il braccio c’erano le pezze che avevano velato i suoi occhi. L’ombra si arrampicò sul davanzale della finestra, si girò verso Orlando ed entrambi si fecero un impercettibile cenno con il capo, e poi sparì, lasciando dietro di se quella che finalmente Orlando riconobbe come un’innocua macchia di sugo di pomodoro.